Ultimamente, al mattino, mi alzo, scelgo una bustina di tè – sempre dalla stessa scatola, come un piccolo rituale – e accarezzo distrattamente la tazza, mentre il mio sguardo si perde fuori dalla finestra. L’estate è alle porte, me lo dicono le erbacce che crescono senza chiedere il permesso.
Da quando è successo tutto – il lutto, il ritorno improvviso, la convalescenza forzata – la mia routine è cambiata. I gesti sono più lenti, il tempo più silenzioso.
Le cose piccole pesano di più: un impasto che lievita, i germogli delle piante, gli appunti sparsi.
Ogni volta che entro nel mio studio, la sensazione è la stessa: tutto è uguale, ma tutto è diverso. Come nel Gattopardo. Una frase che mi colpì anni fa, ora calza perfettamente.
C’è una sospensione nell’aria, come se il mondo corresse su binari che non riesco più a seguire, e io fossi rimasta ferma.
A volte mi sembra che nulla abbia più senso. Le idee ci sono, i progetti anche, ma sembrano lontani, e mancano le energie.
Quando ho bisogno di mettere ordine nei pensieri, ho bisogno di avere le mani impegnate in azioni ripetitive: spaccare la legna, usare il decespugliatore – e ora il giardino ne avrebbe proprio bisogno – oppure riciclare qualcosa.
Dare un senso a qualcosa, per spezzare una routine che non mi appartiene, ma da cui non riesco a uscire.
E mi chiedo: riuscirò a ritrovare un senso che mi faccia ricominciare, o almeno ripartire?
Perché, in fondo, un senso va trovato.
Così sono salita in uno dei miei sgabuzzini in mansarda, quegli spazi in cui finiscono gli oggetti non di uso quotidiano, o quelli in attesa di un tempo migliore.
Come la scatola dei tessuti da riciclare.
Ho iniziato anni fa, quando mi sono trasferita in Svezia. Nei lunghi inverni mi dedicavo a scucire, tagliare e assemblare pezzi di stoffa recuperati dai vestiti dei miei figli, che allora erano piccini, per creare pupazzi e piccoli oggetti. Ogni frammento di tessuto racchiudeva un gesto, un ricordo, un frammento di vita quotidiana.
All’inizio, cucivo per tenere insieme i pezzi – delle stoffe, della mia identità, della mia storia.
Perché avevo bisogno di un’attività sicura, dove riversare tutto, senza filtri né spiegazioni.
Poi, con il tempo, quelle creazioni sono diventate la mia bussola.
Così sono salita in uno dei miei sgabuzzini dal soffitto inclinato, ricavato dal sottotetto di casa. Sempre troppo piccolo per contenere tutti gli scatoloni degli oggetti che pensiamo ci serviranno prima o poi.
Tra questi, io ho anche la scatola – anzi, le scatole – dei tessuti da riutilizzare.
Ne ho presa una a caso, giusto per capire se avesse ancora senso tenerla lì.
Stoffa dopo stoffa, mentre decidevo cosa tenere e cosa no, mi sono ritrovata quasi inconsapevolmente ad aprire il cassetto del cucito, a cercare tra aghi, spilli, centimetri da sarta e forbici ben affilate – quelle che si usano solo, e dico solo, per le stoffe, altrimenti si rovina la lama.
Gesti meccanici che conosco da sempre.
…e poco dopo, senza nemmeno accorgermene, stavo già tagliando, imbastendo, cucendo.
Non avevo in mente un progetto preciso, nessun oggetto utile o decorativo da creare. Solo il bisogno di rimettere in moto qualcosa. Me stessa, forse.
Un pezzetto alla volta, come se ogni punto riportasse a galla una parte di me che credevo perduta.
Non è stato miracoloso. Non ho ritrovato all’improvviso l’energia, la voglia di fare o la lucidità. Ma ho sentito un piccolo scatto dentro.
Come se, tra le mani, avessi ritrovato un linguaggio che conoscevo bene, fatto di gesti lenti, ripetuti, imperfetti ma pieni di intenzione.
Un linguaggio che non chiede spiegazioni né soluzioni, ma solo presenza.
E forse è da lì che si riparte, nei momenti in cui tutto sembra fermo o sbagliato: non da un grande piano, non da una lista di obiettivi da raggiungere, ma da un gesto minuscolo che ha ancora un senso per noi.
Una tazza calda tra le mani, una scatola di tessuti da sistemare, un ago che aspetta il filo giusto.
Non per ricominciare da dove avevamo lasciato, ma per ricominciare da dove siamo adesso.
Perché a volte basta davvero poco: il calore di una tazza con una bevanda calda tra le mani, un filo che tiene, un gesto che ci ricorda chi siamo.
Tu di solito da dove riparti? Puoi farlo qui nei commenti o mandarmi una mail, se ti va.