Dopo tutto quello che è successo, la mia vita ha preso un ritmo nuovo. Più lento, più fragile, ma anche più vero. Ho imparato, a fatica, che non sempre serve correre per andare avanti. A volte, per ritrovare un senso, basta fermarsi, mettere in pausa il frastuono e fare spazio a ciò che conta davvero.
In questo spazio di calma ritrovata, la cucina è diventata per me un rifugio e una piccola rivoluzione. Una cucina che prende tempo, che ha il profumo dei gesti antichi, delle mani che non ci sono più, delle preparazioni pazienti e dei sapori che si sedimentano con lentezza. La cucina che non si fa per riempire lo stomaco, ma per rimettere insieme i pezzi.
Qualche settimana fa ho riaperto un cassetto dove avevo riposto vecchi ricettari scritti a mano — i miei, per la verità. Tra questi, c’era anche un quaderno di mia mamma con alcune delle ricette tradizionali di famiglia. Ai margini di alcune pagine, la mia calligrafia un po’ inclinata e le correzioni a matita tradivano la mia presenza. Si capisce quasi quanti anni avevo da come formavo le lettere, con la stessa goffaggine con cui, in quegli anni, provavo a formare me stessa.
Tra quelle pagine ho ritrovato il soufflé. Quello che, durante gli anni delle superiori, era diventato la mia ossessione serale. Lo avevo scoperto in un’enciclopedia di cucina e, benché non ne avessi mai assaggiato uno vero in vita mia, ero decisa a replicarlo. Ogni sera, dopo cena, dopo aver lavato i piatti, mi mettevo ai fornelli in silenzio, con mio padre a pochi metri da me, davanti alla televisione, a rispettare in religioso silenzio il mio rituale dal profumo francese. Cercavo di dosare aria e calore come se fossero alchimia pura. Ma lui, puntualmente, si sgonfiava appena uscito dal forno. Oppure non era abbastanza morbido. O magari lo era troppo. E ogni volta c’era qualcosa che non andava. Ma io ci riprovavo. Per settimane. Finché, una sera, venne fuori esattamente come lo avevo immaginato: soffice, alto, con un equilibrio tutto mio. Fu perfetto. E fu anche l’ultima volta che lo preparai. Esaurita, sì, ma felice. Come quando finalmente riesci a dire una cosa che avevi dentro da tempo, e poi puoi stare zitta, in pace.
Oggi, in modo diverso, mi capita di cercare quel ritmo di allora. Non più per dimostrare nulla a nessuno, ma per riconnettermi con quella parte di me che trovava pace tra i cucchiai di legno — che continuo ad amare — e i piccoli riti della cucina serale. Ho ricominciato a leggere le ricette non per le dosi, ma per le tracce: le macchie di impasto, le pieghe sulle pagine, le annotazioni a margine. Ho fatto una cernita tra le attrezzature, ho scelto cosa tenere e cosa lasciar andare. Ho osservato i cassetti svuotarsi e riempirsi lentamente, mentre la cucina — e con lei, un po’ anche io — tornava a respirare.
Ho preparato la pasta fresca ripiena, come facevano mia mamma e mia nonna: con l’attenzione rivolta più al gusto che alla forma. E nonostante io sia un po’ perfezionista in cucina, i ravioli di ricotta restano per me l’eccezione. Irregolari, uno diverso dall’altro, ma buoni come un abbraccio. E mentre la impastavo con calma, mi sono accorta che stavo cercando più di un sapore: cercavo una presenza, un ordine nuovo, un po’ di silenzio tra le mani.
E forse è proprio lì — nel tempo che diamo alle cose — che si nasconde il senso più profondo. Quello che ci permette di andare avanti, un passo alla volta, senza fretta. Con una leggerezza che non è superficialità, ma cura.